A cena con i signori Calò, che aiutano i rifugiati a casa propria
Nel Trevigiano una coppia di coniugi ha accolto nella loro già abbondante famiglia sei profughi africani. E l’esperimento funziona. Può essere una risposta al cattivismo dei nostri tempi?
CAMALÒ (Treviso). Il soggiorno di casa Calò è un porto di mare. Prima arriva Tidjan, ventotto anni dalla Guinea Bissau, dal suo turno da lavapiatti in una trattoria. Poi Mohamed, ventisette anni dal Gambia, che fa il tirocinio in una tipografia. Quindi è la volta di Saed, nato ventun anni fa nel Ghana, che oggi lavora come bracciante agricolo. Salutano. Sorridono. Uno stacca le cosce a un pollo, l’altro bolle il riso: cena africana. Non è una cosa da niente perché, alla fine, intorno alla tavola a cui è stata aggiunta da tempo una prolunga un po’ artigianale, saremo un battaglione: il professor Antonio e sua moglie Nicoletta, sotto al crocifisso che campeggia sulla parete; il loro figlio maggiore e quello più piccolo (i due intermedi fanno l’università fuori); cinque dei sei rifugiati che quasi due anni fa, dando scandalo in paese, hanno deciso di ospitare; più il cronista attirato, in questi tempi di cattivismo antimigranti e di “aiutiamoli a casa loro”, da questo caso limite di “aiutiamoli a casa nostra”.
Letteralmente. Se l’arci-italiano Alberto Sordi spiegava il suo non essersi sposato per il disagio di mettersi «una sconosciuta in casa», questo veneto anomalo ha ridisegnato la geometria della sua già numerosa famiglia, dicendo addio per sempre a privacy e silenzio, per spalancare le porte a una squadra di ragazzoni neri come l’ebano, in fuga da un passato tra il misero e l’insostenibile. Chi gliel’ha fatto fare?